Riflessioni su "Approccio al digitale nella scuola dell’infanzia" (Natascia Fattor)

Venerdì 3 maggio tardo pomeriggio, sottoscritto e Michele, entrambi membri del gruppo EXIT (3x1t.org) eravamo all’incontro presso il liceo Toniolo di Bolzano, promosso dal LugBZ.
In quell’occasione abbiamo avuto modo di assistere ad una serie veramente molto interessante di esposizioni, ma su una di queste in particolare mi vorrei soffermare e questa è l’esperienza di Natascia (Introduzione di strumenti tecnologici personalizzati nelle scuole per un’educazione digitale sostenibile per l’infanzia)

L’idea di Natascia di avvicinare i ragazzi già dalla giovane età ai dispositivi tecnologici che conosciamo tutti con il nome di smartphone, ma “ridimensionati” e resi essenziali in un certo senso nelle loro (pressoché infinite) potenzialità trovo che abbia un senso oggi che la stragrande parte dell’umanità ha imboccato una pericolosa deriva tecnologica (oggi che i buoi sono scappati per intenderci).

Tuttavia, dopo aver ascoltato direttamente dalla voce della protagonista l’intento che si prefigge l’iniziativa sento l’esigenza di sollevare alcune perplessità sulle quali ritengo sia doverosa una attentissima riflessione, se non altro per amor delle nuove generazioni.

Ma iniziamo dal principio:
Il progetto di Natascia verte sul poter fornire a bambini dai tre ai sei anni una tipologia di smartphone che “esponga” all’utente solo una serie di applicazioni che potremmo definire per brevità “essenziali”.
La peculiarità di queste applicazioni è che siano essenzialmente utili al bambino, certamente con l’aiuto di una figura pedagogica di supporto, nel raccogliere momenti del suo vissuto reale, arrivando a migliorare o amplificare la capacita espressiva dello stesso.

Io questa idee la ritengo semplicemente fantastica! Oggi che la tecnologia viene usata per la stragrande maggioranza dei casi in modo passivo (ricevo → rimando → ricevo> rimando…), vedere che c’è chi si adopera per invertire il trend mi pare semplicemente eccezionale!

All’inizio devo ammettere ne ero un po’ spaventato tuttavia. Considero infatti da tempo l’ipertecnologia l’equivalente di una bomba atomica (ah già, se la tecnologia è neutra qualcuno mi dovrebbe spiegare quale potrebbe essere l’uso “costruttivo” di un ordigno atomico, ma questo è un altro discorso…) e l’idea di consegnare una piccola bombetta atomica ad un bambino di certo non mi rende sereno, purtuttavia devo essere in grado di ampliare la mia visione e in questo non posso non considerare il fatto che oramai tale tecnologia sia ormai diventata la “tecnologia di tutti e per tutto” e come tale diventerebbe difficile oltre che autolesivo limitarla o peggio proibirla. Si otterrebbe semplicemente l’effetto contrario o risposte psicologiche imprevedibili (in una famiglia che sto seguendo, i genitori hanno deciso di loro iniziativa di limitare fortemente l’uso di instagram al figlio quattordicenne, risultato: attacchi di panico).

I genitori stessi, in maniera del tutto inconsapevole passano ore al giorno davanti al device, in presenza dei bambini, questo genera nella mente dello stesso l’opinione che si tratti di uno strumento buono …buono come il pane. Vietarglielo genererebbe un cortocircuito (uno dei tanti a rigor del vero…) nella mente del bambino.

Per tutte queste ragioni e per altre che per brevità non posso elencare, approvo decisamente l’idea di Natascia e il coraggio di portarla avanti.

A questo punto, non potendomi limitare a questo circoscritto contesto di analisi, devo anche ragionare sul “durante e sul dopo”, devo cioè sforzarmi di immaginare anche il contesto famigliare e sociale in cui questo ragazzino crescendo si verrà a trovare e qui secondo me arriva la parte più difficile e critica.

Ora immaginiamo un bambino che dai tre anni e fino ai sei abbia usato un device siffatto, cosa accadrebbe uscendo dalla scuola materna e ritrovandosi in un diverso ambiente didattico, dove gli altri ragazzini utilizzino dei telefoni diciamo “normali” con tutte le app che conosciamo bene e con la possibilità di installarne quantità e varietà pressoché illimitate?

Cosa accadrà la prima volta che il ragazzino cresciuto con uno smartphone “di Natascia” vedrà un suo compagno “parlare” con il proprio telefono e vedere che questo gli risponde?

E ancora, se in famiglia tutti gli altri componenti del nucleo famigliare usano degli smartphone “normali” e solo il nostro ragazzino un device particolare con poche applicazioni e l’impossibilità di usare whatsapp (solo per citarne una) o di personalizzare il suo parco applicazioni, cosa succederà?

Quanto impiegherà questo ragazzino a rifiutare in toto il telefonino “più sfigato” a vantaggio dell’altro totalmente nelle mani di Google (ancora per citarne uno) e a disconoscere l’intero progetto?

E arrivo al punto: secondo la mia umilissima opinione è indispensabile creare:

a. un ambiente circoscritto in cui il bambino si muove e opera attraverso (anche) la tecnoligia. Questo ambiente nei primi sei anni non può escludere la famiglia e per famiglia intendo genitori e fratelli e tutti gli altri eventuali componenti della stessa. E già qua la vedo durissima: ve lo immaginate il fratellino quattordicenne a downgradare il suo smartphone a uno di livello diciamo almeno LineageOS privo di Google?!?
Vogliamo poi includere in tale ambiente una serie di educatori preparati e consapevoli, possibilmente non “tecno-entusiasti” come quelli dell’Università di Camerino?!?

b. un team di specialisti in grado di seguire il bambino ma anche la famiglia in questo delicatissimo passaggio e per anni dunque. Questo team dovrà essere formato da psicologi, antropologi, biologi, neuroscienziati ed esperti delle insidie delle ipertecnologie. Perché anche gli antropologi? Perché vanno approfonditi (e resi noti alle famiglie) gli aspetti che anche solo in quanto specie “homo sapiens sapiens” portano noi a legarci in questa forma simbiotica con tali strumenti. Perché neuroscienziati? Perche vanno mappate le aree del cervello che arrivano a specializzarsi più di altre nell’uso dell’ipertecnologia al fine di poter produrre degli indicatori anche del tempo di utilizzo di tali tecnologie, in modo da rimanere sempre al di sotto di quella soglia di irreversibilità o di abbandono dell’analogico. Psicologi le che abbiamo compreso che la cosa è delicata (qualche anno fa in treno avevo scorto un bambino di neanche un anno, urlare come un disperato, mi avvicinai osservando il padre, lui comprese il mio sguardo critico, estrasse dalla borsa un tablet che pose nelle mani del bambino e questo smise immediatamente di piangere…). Biologi perché è una questione di “energia”. L’umano ritrova nello strumento ipertecnologico il mezzo per risparmiare energia e questo lo fa star bene. Se pensiamo che con uno smartphone o con un tablet apriamo il nostro corpo e la nostra mente a pressoché infinite possibilità, questo potrebbe signirifcare che di un corpo ficico per come lo conosciamo ora, forse un domani non avremo più bisogno. Qualcuno ha visto Matrix per esempio?..

c. dei Diritti: il diritto a poter accedere ai miei servizi essenziali anche in mancanza di specifiche tecnologie. Potrò parcheggiare senza l’app del comune di turno? Potrò prenotare una visita medica senza l’app della regione? Potrò consultare il mio conto corrente senza l’app della banca? Potrò studiare senza l’app della mia scuola? Potrò aprire la porta di casa mia senza un’app specifica? Potrò fare la spesa senza l’app del negozio? E cosi via…

Ecco queste sono solo alcune delle riflessioni su cui vi invito a riflettere.
Poi sarà quello che sarà, magari scoppierà la terza guerra modjiake prima, ma ritengo sia comounqe compito nostro studiare molto bene il fenomeno.

Grazie!

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